sabato 18 novembre 2017

La custodia.

Totò Riina, il capo dei capi, il Negus Neghesti della mafia sta morendo in questi minuti.
Una vita conclusa, intrisa di dichiarati principi, che, come tutti i principi, sono valori della minchia.
Si sta spegnendo un tratto lungo e importante, anche se consegnato al sotto-traccia, della vita del Boss, guardiano degli equilibri statici in tutto il mondo.
A cosa sono serviti i sacrifici, le morti, l'impegno - quando c'è stato - di fronte all'uniformità della morte che cancella tutto e tutto rivela per inutile?
Il vecchio recluso è morto da trentasei ore e la retorica misteriologica ha ribadito i già noti luoghi comuni e ripercorso una carriera criminale, durante la quale ha avuto più a che fare con i competitori interni che con gli apparati dello Stato.
Quando qualcuno di questi ultimi gli si è opposto e non solo a lui, lo ha eliminato, non solo per sé.
La mafia è sempre stata il braccio armato del potere meridionale e di quello politico romano, almeno per la parte borbonica ivi rappresentata.
Con l'inserimento dei propri capitali nell'economia settentrionale ha portato a replica autoctona quanto già fatto dopo l'emigrazione in america.
In quella del nord, ricca e mercantile.
Se lo ha fatto anche in quella latina, non è dato accorgersene: è in perfetta simbiosi con quell'ecosistema.
Anche con quella Chiesa, oltre a quella territoriale che ha sempre portato i sacramenti ai latitanti, senza mai contribuire a farli localizzare.
Da quando Giovanni Paolo II li aggredì verbalmente e, soprattutto, Francesco I li ha scomunicati, la posizione ufficiale evita la pubblica commistione con un potere delegato, per troppo tempo seppellito in una buia galera.
Anche Riina aveva fatto il suo tempo e la sua irriducibilità in carcere è stata l'ultima assurda battaglia autoimmortalante: il suo excursus di vita non è stato banalizzato dal pentimento e dalla confessione.
Con questa gente è meglio non averci a che fare e invece lo Stato, specifici apparati istituzionali e para istituzionali, hanno e continuano ad avere un sistematica collaborazione con la mafia ed è in onore di questa atavica consonanza che il Capo non ha mai parlato, ma si è invece investito della conservazione del suo segreto. 
Gli oppositori, ingenui epigoni dell'immolazione celebrativa, sono stati eliminati attraverso i suoi buoni uffici, secondo la prassi consolidata degli esecutori ambiziosi.
La loro esecuzione è stata sempre preceduta dall'isolamento, proprio da parte di quegli ambienti da cui avrebbero dovuto essere supportati e tutelati.
Lo scambio di favori non ci fu, perché quello vero non aveva alcuna attinenza con quelli presunti.
Il potere non indulge alla sua autodistruzione, ma ha bisogno di figure simboliche su cui riversare tutta la sua retorica occultatrice e coloro che vi hanno contribuito in vita e in morte continuano ad essere iconizzati nelle vie e nelle piazze.
Mentre il capo minore del gioco combinato ne ha taciuto i fondamenti, noti, ma volutamente indimostrabili, perché continuino a perpetuarsi, laddove l'uno ha bisogno dell'altro e tutto si tiene.

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