domenica 11 giugno 2017

Mi sembra di essere vivo solo quando dipingo.

Vincent Van Gogh scorre, nelle sue opere, insieme alla sua biografia, sulle pareti di un Tempio profano.
Il film del suo viaggio espressivo, che per lui coincise con la sua vita.
Fu ricoverato due volte in una clinica psichiatrica che ritrasse in termini spogli, emozionalmente rarefatti e alieni.
Amo gli artisti pazzi e senza scuola.
Van Gogh, a parte i rudimenti del disegno, appresi con il denaro del non ricco, amatissimo, fratello Theo, non sapeva preparare l'imbrattamento delle tele.
Aveva però un mondo interiore da esprimere, la sua osmosi con l'apparente e il sub conscio e lo ha fatto in maniera commovente.
La sua forza, la forza religiosa delle sue abbacinazioni, è stato il colore, il cromatismo impressionistico, come impressionistica è stata la sua anima.
Nello scorre diacronico sulle pareti, al caos esistenziale che non è stato ancora decifrato, né lo sarà, per uno dei paradossi del Fato, si sono sovrapposte, sui muri, i fregi e i capitelli del tempio risecolarizzato, figure cangianti e modificatrici dei tratti dell'artista, archetipiche, originali, riformulate casualmente, come la vita in natura.
Il mondo interiore di Van Gogh non è stato programmato, è consistito nell'atomizzazione fluttuante della materia vitale, della quale ha ricercato la difficile espressione, perché disorganizzata in una chimica non organica.
E' stato un impegnativo lavoro, non per affermarsi, ma per vivere.
E' stato un pittore autodidatta.
Sono incappato, nel quartiere latino di Parigi, popolato da artisti in fuga dalla gabbia degli scopi economici, nella casa in cui Van Gogh abitò durante i suoi due anni nella capitale dell'intellettualità.
Uno dei pochi ricordi urbani, di cui l'artista celebrerà il clima creativo e il senso della libertà della mente.      
E' questa, almeno è anche questa, la pazzia?
Sul pavimento della cripta, sul quale scorrevano, come sulle pareti, le riproduzioni interattive di quell'anima, nella quale arte e esistenza si identificavano, una bambina molto piccola, esteticamente, astrattamente graziosa, si muoveva con eleganza intrinseca e si confondeva con le luci che alimentavano la mostra, ibridandola in una rappresentazione teatrale spontanea, nella quale l'inconsapevolezza si sposava con la metafisica presenza del pittore.
Van Gogh non fu mai ingaggiato, né protetto da qualche signore, dalla Chiesa e quant'altri committenti: fu sempre libero.
Insieme al turbinio naturalistico, ne dipinse anche la melanconica staticità crepuscolare del lavoro nei campi, la rassegnata fatica dei contadini, le case coloniche nelle quali abitavano, insieme alle donne dalle amplissime vesti.
Il suo colore preferito è stato il giallo: il colore del sole.
In realtà, ha dipinto di tutto: i suoi interni francesi sono una belle époque a digradare, intersecantesi ed avvolgentesi, le promenades sono rarefatte e rappresentano l'unica concessione nebbiosa al deambulare in marsina e crinoline, all'ozio in passerella della classe borghese.
Vincent Van Gogh ha fatto della sua menomazione il volano rappresentativo della sconosciuta e misconosciuta infelicità di tante, tantissime casuali esistenze.
Vite che non possono, non sanno, non sono state aiutate a manifestare, esteriorizzare la loro espressivamente troppo povera, infantile eppur dolente, tarpata proiezione sul mondo circostante e che non riescono a universalizzarlo.
Fu molto poco quel che potè fare per lui, in base alle sue possibilità, il fratello Theo, ma fu quello che gli sarebbe mancato.     
" L'amore a volte cessa, ma la sua essenza rimane eterna".
Frase di un artista infelice, nella sua dimensione religiosa.
Foss'anche, lui l'avrebbe provato, non importa se solipsisticamente.
Un amore come tanti che senso e valore superiori avrebbe avuto?
Avrebbe distrutto tutto e invece nelle sue tele rimane, per sempre.


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