lunedì 26 giugno 2017

L'aterritorialità, ma non globale, della cultura.

Stefano Rodotà se ne è andato.
Insalutato ospite.
Il candidato grillino sarebbe durato poco alla Presidenza della Repubblica.
Portò dalla Sorbona lo spirito illuminista e si diede da fare per fecondarne le istituzioni e coniugarle con quella cultura.
Tentativo vano, un po' bizzarro già nella sua genesi.
Anche se l'illuminismo conobbe nell'ottocento due declinazioni, in Italia.
Quella lombarda,  interpretata da minoranze liberali, neppure univoche, e dal sentimento popolare contro l'oppressione, intersecato da forti tradizioni culturali cattoliche.
Manzoni, che condivideva le due dottrine, ne rappresenta una sintesi colta. 
L' espressione laica più bella dell'illuminismo settentrionale fu, sul piano filosofico-giuridico, "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria.
Quella napoletana, anch'essa liberale e crociana, non fu conosciuta, perché non divulgata, dai lazzari e  fu borbonicamente accolta e metabolizzata.
Il fatto che sia stata digeribile ne denuncia i gravami formativi e la monca, quindi sterile, evoluzione. Anche quella milanese non fu, nelle sue potenzialità rivoluzionarie, adeguatamente partecipata.

L'illuminismo, la cultura non si importano, scaturiscono dall'Ego delle nazioni; quelli italiani - sono molti e dispersi - non vi hanno attinenza.
Alla Sorbona insegnò, da esule o da latitante anche Toni Negri che, comunista trascendente, fu ottimo professore, ma non esportatore, neanche produttore, di alcuna influenza, tranne che sugli studenti, che se la lasciarono alle spalle dopo la laurea.
Del resto era solito dire: "trenta, tanto lei non ha capito un cazzo, né mai lo capirà".
L'illuminista del sud fu sempre residente a Roma dove visse in simbiosi con l'intellighenzia radicale di Eugenio Scalfari e di Ettore Scola, nella città meno illuminista del mondo, a meno che non si voglia equivocare il cinismo e il nichilismo pigri, con il sovvertimento di tutti i principi feudali, legati alla terra e sanfedisti legati alla religione, che è il basamento della cultura nazionale francese.
Ancora oggi.
Rodotà che pure, a quanto pare, raccomandò la figlia perché entrasse in una redazione giornalistica - altrimenti, a Roma, ma anche altrove, non vi sarebbe mai approdata - parlò al ponentino e a se stesso, fu celebrato e reso pubblico dalla stampa autoreferenziale di un'intellettualità importante, ma di rivalsa nei corridoi parlamentari, onanisticamente autoconsolatoria nella varie "terrazze" romane o, ancor prima, sotto il marmo dei tavolini del caffé Greco.
Perché sotto e non sopra? Ma, ventimila seghe sotti i marmi, si diceva.
Stefano Rodotà è stato un esponente di quella cultura, appresa sui libri e sotto influenze del tutto imparagonabili, che In italia non ha mai avuto, né mai avrà, alcun diritto di cittadinanza.
Sarà ancora ignorata  e aggredibile da anticorpi formatisi nella sua non conoscenza, per la commistione fra l'impronta cattolica onnipresente e la confluenza, che resterà assolutamente autonoma, non ibridabile, dell'islamismo.
Ibride, per altro, farebbero ancora più danni.
Rodotà ha quindi, con appassionata oziososità, parlato ai suoi acculturati amici, si è distratto partecipando ai rozzi convegni della CGIL, ha anche sfilato qualche volta con i manifestanti, convinti dal servizio d'ordine che quel sofisticato professore condividesse i loro elementari non pensieri, solo perché era sceso per strada.
Sarà dunque ricordato solo nelle lobby autoincensantesi alle quali aderiva, in questo italianissimo, anche se di nicchia e, per toponomastica urbana, anche i passanti ne leggeranno il nome e lo prenderanno a riferimento per qualche appuntamento. 

Nessun commento:

Posta un commento