sabato 29 luglio 2017

Una regressione ricorrente.

Quando c'era il mondo del lavoro, c'era soprattutto, in quell'ambito, una disciplina molto attenta a far si che le ruspanti e potenzialmente violente masse proletarie, non credessero possibile abbandonarsi a spontanee manifestazioni di vitalismo sovversivo, anche contro le costumanze apparenti della classe borghese, che schermava quelle dominanti.
L'ordine era propedeutico a quello che la masse e i massificati avrebbero conosciuto nel socialismo reale.
I capi comunisti non erano democratici, erano piuttosto appartati; le donne intelligenti d'apparato erano l'equivalente delle belle senza cervello dell'iconografia vincente.
Per le masse c'era la disciplina ideologica, prima di tutto, del tutto speculare e parallela a quella della chiesa cattolica nei confronti delle plebi, ignoranti e devote, a supporto della classi dominanti. Anche le messe erano di fatto separate: a una cert'ora un officiante-comiziante per la destra istituzionale, rappresentata da grandi commessi della burocrazia statale. Normalmente quella di mezzogiorno.
Per le masse, c'erano le case del popolo, l'intrattenimento post lavorativo, le riunioni di cellula, il suffragio sindacale alla CGIL che menava la danza nelle fabbriche, orientando l'azione dei suoi associati.
La grande borghesia stava arroccata - come oggi - nei suoi privilegi e nell' attenta difesa, anche e soprattutto politica, dello status quo, la media e la piccola borghesia paventavano l'egualitarismo, sentito come una perdita di status e la fine del sogno di appartenere un giorno alla classe alta. Come se questo fosse possibile, in termini strutturali.
Il partito comunista è morto, le masse ci sono ancora e lavorano pure ad intermittenza, ma sono disperse, frastagliate, non conoscono più un'organizzazione a cui riferirsi, sostanzialmente religiosa e consolatoria, per trascorrere la loro vita.
Vivono di espedienti, di debiti e di atteggiamenti verso il mondo, desunti dal mondo stesso.
La bigiotteria sociale , l'ubriacatura serale, la commistione, negli stessi quartieri e nello stesso ambito precario di lavoro, con il proletariato immigrato, ne fanno degli spostati che vogliono mascherare a se stessi l'assurdità della loro esistenza.
I valori, in maniera oscena, cioè nudi, senza orpelli, tranne quelli di chi la promana, non sono più osteggiati da valori popolari.
La dicotomica dispersione si esercita su due binari paralleli.
C'è solo questo?
Certamente no, ma l'evidente slabbratura, irricucibile, è propria della maggioranza dei dispersi e non salvati.
Da questo punto di vista, forse e per ora, conservano qualche tradizione che non sia meramente materialistica, le masse immigrate, di diversa cultura religiosa.
La contestazione proletaria è tornata ad essere appannaggio di frange utopistiche, che anticipano o giù interpretano il vandalismo, dai quartieri ghetto verso il centro.
Il centro, già snobbato dall'aristocrazia, per i vandali invasori di un giorno, perchè poi ripiegheranno nei loro acquartieramenti, è il miraggio del luccichio di beni apparenti, della bigiotteria sociale, appunto, oltre di qualche oggetto di consumo attribuente immagine, miserabile status, che vogliono possedere ad ogni costo.
L'istruzione torna a farsi escludente, se non elitaria. La cultura in senso nobile, a chi detiene una posizione di vantaggio e non ha una tradizione professionale, o anche solo culturale domestica, non serve, come non è mai servita: basta la ricchezza, interpretata, da parte loro, in modo becero e intrinsecamente, quando non esplicitamente, violento. 
I poveri e i neo poveri ne sono respinti, esclusi.
Non esiste un progetto formativo per loro.
L'inestenza comporta un'incapacità analitica, che non sia istintivamente reattiva e li abbandona alla repressione poliziesca.
Lo Stato in ritirata smette di essere, per loro, un'ancora di sia pur labile stabilità e li apparenta, sul piano sostanziale, ai migranti senza scopo, ormai da respingere perché non alterino irrimediabilmente il disordine ricostituito.

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