martedì 25 aprile 2017

A che cosa serve la precarietà?


 Dalla legge Biagi del 2003 in poi, l'Italia ha bruscamente accelerato  nell'adeguarsi al costume lavoristico anglo e non sassone, dato che la Germania non ha smobilizzato di un "acca" il suo welfare corporativo, ma rigoroso, soprattutto sul piano dell'onestà.
Il nostro invece è andato a puttane come ha ricordato poche settimane fa un leader del nord Europa.
Gergalità centrata, assolutamente veritiera.
Si può anzi dire che, dopo una prima deframmentazione inconcludente avvenuta in Spagna, sia stata l'Italia la più sterilmente zelante applicatrice delle sollecitazioni della moda, che però hanno solo rivelato, in un crescendo imbarazzante, il basamento d'argilla e di corruzione su cui si basava il suo clientelare e familistico successo, versione prima Repubblica.
I trasformismi politici incrociati sono stati mellifui, per fortuna rintuzzati dal popolo, dal corpo elettorale che non vota più, nelle sparute circostanze in cui ha potuto esprimersi.
Ciò non ostante, i pallidi epigoni di Licio Gelli rilanciano, alla ricerca del servaggio ben remunerato, necessario ad interpretare, insieme alle loro famiglie, il canovaccio di una ricchezza estorta, ma italianamente accettata, giustificata.
Tranne che nelle poco popolate socialdemocrazie del nord, oggi più osteggiate che in tutti gli ultimi decenni, altrove si è puntato tutto sulla minor aspettativa di vita, da senescenza, dei futuri, pensionati, sull'abbattimento dello Stato sociale pubblico, sul demando al welfare privato che si esercita in una serie di servizi, limitati nelle facoltà di fruizione e invasiva rispetto alla privacy dei destinatari, sostitutivi, anziché integrativi, del reddito da lavoro.
La "ratio" sinergica delle aziende  e dei sindacati, come all'epoca "sociale" del fascismo, è sotto gli occhi, spesso appannati o alterati da lenti inadatte.
In questo contesto, che funzione esercita la violenta precarizzazione del lavoro?

 Il mantenimento del pieno impiego, che permane solo in Germania e nei paesi scandinavi, causerebbe cambiamenti , o meglio, una restaurazione sociale e politica che darebbe un nuovo impulso alla reattiva e reazionaria opposizione degli uomini d’affari.
Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo di strumento di disciplina intimidatoria.
La posizione societaria e aziendalistica sarebbe minata, mentre la fiducia in se stessa e la coscienza di appartenenza della classe lavoratrice, soprattutto post-operaia, aumenterebbero di nuovo.
Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche e irriterebbero i commissari europei.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di "laisser-faire"; anche l’incremento dei salari, risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori,  probabilmente incrementerebbe i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggerebbe così solo gli interessi dei "rentier".
La “disciplina nelle..e delle fabbriche”, in senso etimologico, insieme alla “stabilità politica”, sono più apprezzate, dagli uomini d’affari, dei profitti. Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non sarebbe vantaggioso per loro e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista, con le sue masse di esclusi.
Tutto il resto ne discende, in una situazione di mancanza di un'opposizione e di una proprosta alternativa, con i sindacati politici più sfarinati che mai od in cerca di una legittimazione pubblica, per supplenza, che non hanno mai ottenuto e che non otterranno. I sindacati "moderati o complici" in particolare, in quanto "amabili e riamati", favoriti e privilegiati, ma sempre mantenendo le distanze, sperano di essere vestiti con una livrea.
Ecco a che cosa ed a chi serve la precarietà.

Il governo italiano, di ogni segno ed ibridazione, ha scelto il trasformismo gattopardesco, ripristinatorio della supremazia  delle classi ricche, sempre più tradizionali e circoscritte e riservato alle classi popolari, una generazione almeno di periferizzazione.

Nessun commento:

Posta un commento